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Il geranio – Laboratorio di scrittura Marzo 2013

Questo è stato il primo laboratorio di scrittura a cui ho partecipato. Se non ricordo male, è stato il primo lab di scrittura di Èscrivere.

Ho corretto qualche imprecisione, che dopo più di un anno due cosette saltavano all’occhio, però è praticamente rimasto come era.
Dato un incipit, si doveva scrivere un racconto a tema libero.

Ecco a voi:

Il geranio

Il vecchio Dudley si rannicchiò nella poltrona, che stava a poco a poco prendendo la sua forma, e guardò dalla finestra verso un’altra finestra incorniciata di mattoni rossi anneriti, a cinque metri di distanza. Aspettava il geranio.

Ogni anno in primavera la pianta sul davanzale dava fiori vermigli che accompagnavano l’estate fino all’accorciarsi delle giornate in autunno. Lo sbocciare dei fiori indicava l’arrivo del bel tempo, il loro sparire significava l’arrivo del freddo. Tutto questo il vecchio Dudley lo sapeva bene, per tanti anni la sua vita era stata scandita dalla fioritura del geranio.
Sua moglie Deirdre si era sempre occupate dei fiori del piccolo giardino e della casa. Lui lavorava come impiegato all’ufficio postale giù in paese, la sera rincasava in bicicletta e mentre aspettava che in tavola fosse pronto si sistemava sulla sua poltrona, prendeva il giornale e gettava lo sguardo alla finestra per vedere il geranio, piccolo orologio stagionale, e capire subito il suo posto nello spaziotempo.
Una vita tranquilla e senza grossi scossoni: il lavoro, la famiglia, i figli, i capelli che imbiancano, Deirdre sempre accanto, invecchiare insieme, i figli che partono per altre città, per altre nazioni, i nipoti visti solo per le feste e poi nemmeno per quelle.
E il geranio sempre lì, a ricordare le stagioni. Un po’ di terra fresca, far respirare le radici a marzo. Primi boccioli a maggio, annaffiature abbondanti col caldo, ma attento a non bagnare le foglie che poi si ammalano.

Dudley si sistemò meglio sulla poltrona, prese delle vecchie foto, alcune in bianco e nero, altre a colori ormai sbiaditi. Le guardò con la bocca leggermente aperta, come se avesse voluto dire qualcosa, ma la frase gli fosse morta sul bordo degli incisivi inferiori.
Deirdre che sorrideva in bianco e nero. Deirdre a piedi nudi su un prato. Deirdre vestita da sposa, col velo e il mazzolino di fiori di campo. Deirdre e Dudley davanti alla chiesa. Istantanee di una vita fa.

Dudley posò le foto e si girò di nuovo a guardare verso il geranio. La sua Deirdre che tanto amava i fiori. Che aveva riempito il giardino di narcisi, azalee, rododendri, camelie, rose, ortensie… E che invidia faceva alle vicine la loro piccola casetta di mattoncini rossi incorniciata da tutti quei fiori!
Lei sapeva tutto sulle piante: come curarle, come mantenere più a lungo le fioriture, come potarle. Lui tornava a casa la sera e veniva accolto dai fiori, ma il geranio… il geranio era il suo preferito.

Si alzò dirigendosi verso la finestra e la aprì. Sospirò guardando il geranio. Troppo presto, ancora nessun bocciolo, la primavera era ancora lontana. Mentre guardava il geranio un volto di donna apparve alla finestra difronte. Per Dudley fu troppo.
Prese il vaso col geranio e lo scaraventò con tutta la sua forza, lanciandolo contro la finestra della casa accanto, mandando in frantumi vaso, vetro e tranquillità del vicinato.

“Deirdre! Maledetta troia! Io che mi vantavo di te, dei tuoi fiori, di quel fottuto geranio! E tu ti scopavi il fioraio! Proprio nella casa accanto dovevate trasferirvi?! Stronza!”
Deirdre si sporse e lo guardò con aria torva, prese i battenti delle persiane e li chiuse dietro di sé senza proferire parola.

Dudley strinse il pugno e lo agitò al cielo. Chiuse la finestra e si risedette sulla sua poltrona. Guardò il davanzale vuoto dove era sempre stato il geranio.

Che si fottesse anche il geranio. Avrebbe venduto tutto e si sarebbe trasferito in qualche atollo dove era sempre estate.

geranio-rosso-in-vaso


Geburah (Rosso) – Lab Settembre 2013

La sala era stata ottenuta scavando un antro circolare nella nuda roccia.
Illuminata da un braciere centrale e da numerose torce affisse alle pareti risplendeva di un rosso cupo e cangiante; la volta gigantesca era sorretta da un enorme pilastro, Il Pilastro della Severità. Per chi si affacciasse per la prima volta in quello spazio, lo spettacolo era garantito.

Subito davanti al Pilastro cinque gradini di pietra conducevano allo scranno su cui sedeva il Grande e Giusto, avvolto nella sua tunica amaranto, la spada appoggiata di traverso sulle ginocchia, il cappuccio alzato a coprirne completamente il volto.

I duecentosedici Timorati di Dio erano disposti lungo i bordi della sala, ciascuno avvolto dalla stessa tunica rossa del Grande e Giusto, sebbene a capo scoperto, e ciascuno di loro era armato di spada priva di fodero. Tenevano l’arma in mano impugnandone l’elsa come se fossero pronti a un imminente combattimento: ma tutto era calmo, i loro volti erano severi, freddi e impassibili.
Solo il rosso delle fiamme danzava sui loro volti e sulle loro vesti, scolpendoli fuori dalla pietra della sala.

Il novizio si fece strada senza che nessuno lo annunciasse. Era giusto che entrasse e lo fece senza esitazione. La parte superiore della sua tunica non era indossata e pendeva dalla vita, appesa alla corda che la chiudeva, lasciandolo a torso nudo.
Difficile dire che età avesse in mezzo alla penombra disegnata dalle fiamme, ma si distingueva la stazza massiccia, una muscolatura ben sviluppata ed era completamente rasato, privo di peli sul corpo, barba e capelli. Lo sguardo era determinato, la mascella marcata, gli occhi fissi sul braciere.
Non era mai entrato nella sala prima, eppure non si era perso un secondo in contemplazione.

Il Grande e Giusto parlò.
“Tu che vieni nella casa del Padre, sei pronto ad affrontare il Suo Giudizio?”
Il suono era cantilenante, come se avesse pronunciato quelle parole migliaia di volte prima di allora. Il novizio non si scompose, si inginocchiò e la sua voce riecheggiò nitida e forte, in risposta a quella che aveva appena parlato.
“Sì, sono pronto.”
“Allora che sia fugato ogni dubbio sulla tua inclinazione verso il Male!”
A queste parole tre Timorati di Dio si avvicinarono al braciere, uno di loro estrasse un pugnale e lo passò ripetutamente tra le fiamme, gli altri due si portarono ai lati del novizio e lo afferrarono per le braccia cercando di immobilizzarlo. Ma lui si divincolò, incrociò le braccia al petto e si piegò con il busto in avanti, offrendo la propria schiena all’uomo col pugnale.
Questi iniziò a incidere la carne e il sangue prese a sgorgare vermiglio, mentre il novizio respirava intensamente, senza emettere lamenti e restando immobile. Quando il pentacolo fu completato il coltello lordo di sangue fu lasciato davanti alle sue ginocchia e i tre uomini si ritirarono.

Il Grande e Giusto tornò a parlare.
“La prima prova è stata completata. Tu ora porti il Simbolo, ma possiedi solo un pugnale lordo del tuo stesso sangue. Per essere un vero Timorato di Dio e combattere per il Bene Maggiore ti serve una spada. E solo duecentosedici possono essere le spade della mano sinistra di Dio. Quindi scegli attentamente chi sfidare e vinci la spada o muori da uomo giusto.”

Il novizio si alzò in piedi. Prese il coltello che aveva davanti e osservò il suo sangue illuminato dalle fiamme. Due tipi di rosso così diverso che si fondevano su una lama creavano un effetto quasi ipnotico. Non c’era però tempo da perdere, doveva finire il suo rituale, prendere il posto di uno degli altri confratelli.
Il dolore sulla schiena era lancinante e annebbiava la mante, rallentava i movimenti. Se chiudeva gli occhi ogni fitta corrispondeva a un lampo vermiglio nella sua mente. Girò intorno al braciere guardando nella direzione dei confratelli, poi quando fu ai piedi dello scranno, restando sempre impassibile, si girò di scatto e lancio il coltello con forza e precisione.
La lama andò a conficcarsi nel cappuccio del Grande e Giusto, che non riuscì nemmeno a emettere un suono prima di accasciarsi in avanti.
Il novizio salì i cinque scalini e raggiunse lo scanno, liberò la testa del Grande e Giusto e notò che il pugnale si era conficcato nella tempia del vecchio uomo. Era così annoiato che non stava nemmeno guardando in quella direzione.

Il nuovo Grande e Giusto prese la spada e ne strinse saldamente l’elsa, quindi si caricò in spalla il corpo del vecchio, scese gli scalini e lo andò a buttare nel braciere.
Nessuno parlò, tutti tacevano e sapevano. Da tempo i Timorati di Dio avevano anteposto il Bene Minore a quello Maggiore e questo non era ammissibile agli occhi di Dio. Ma la legge è legge e nessuno nella setta avrebbe potuto opporsi senza creare disarmonia a sua volta.

“Il Cielo è dei violenti” disse il Grande e Giusto, guardando il sangue che sfrigolava tra le fiamme. Si tirò su la tunica e alzò il cappuccio, andandosi a sedere sullo scranno, con la spada ancora saldamente in pugno.

geburah