Tag Archives: èscrivere

Il geranio – Laboratorio di scrittura Marzo 2013

Questo è stato il primo laboratorio di scrittura a cui ho partecipato. Se non ricordo male, è stato il primo lab di scrittura di Èscrivere.

Ho corretto qualche imprecisione, che dopo più di un anno due cosette saltavano all’occhio, però è praticamente rimasto come era.
Dato un incipit, si doveva scrivere un racconto a tema libero.

Ecco a voi:

Il geranio

Il vecchio Dudley si rannicchiò nella poltrona, che stava a poco a poco prendendo la sua forma, e guardò dalla finestra verso un’altra finestra incorniciata di mattoni rossi anneriti, a cinque metri di distanza. Aspettava il geranio.

Ogni anno in primavera la pianta sul davanzale dava fiori vermigli che accompagnavano l’estate fino all’accorciarsi delle giornate in autunno. Lo sbocciare dei fiori indicava l’arrivo del bel tempo, il loro sparire significava l’arrivo del freddo. Tutto questo il vecchio Dudley lo sapeva bene, per tanti anni la sua vita era stata scandita dalla fioritura del geranio.
Sua moglie Deirdre si era sempre occupate dei fiori del piccolo giardino e della casa. Lui lavorava come impiegato all’ufficio postale giù in paese, la sera rincasava in bicicletta e mentre aspettava che in tavola fosse pronto si sistemava sulla sua poltrona, prendeva il giornale e gettava lo sguardo alla finestra per vedere il geranio, piccolo orologio stagionale, e capire subito il suo posto nello spaziotempo.
Una vita tranquilla e senza grossi scossoni: il lavoro, la famiglia, i figli, i capelli che imbiancano, Deirdre sempre accanto, invecchiare insieme, i figli che partono per altre città, per altre nazioni, i nipoti visti solo per le feste e poi nemmeno per quelle.
E il geranio sempre lì, a ricordare le stagioni. Un po’ di terra fresca, far respirare le radici a marzo. Primi boccioli a maggio, annaffiature abbondanti col caldo, ma attento a non bagnare le foglie che poi si ammalano.

Dudley si sistemò meglio sulla poltrona, prese delle vecchie foto, alcune in bianco e nero, altre a colori ormai sbiaditi. Le guardò con la bocca leggermente aperta, come se avesse voluto dire qualcosa, ma la frase gli fosse morta sul bordo degli incisivi inferiori.
Deirdre che sorrideva in bianco e nero. Deirdre a piedi nudi su un prato. Deirdre vestita da sposa, col velo e il mazzolino di fiori di campo. Deirdre e Dudley davanti alla chiesa. Istantanee di una vita fa.

Dudley posò le foto e si girò di nuovo a guardare verso il geranio. La sua Deirdre che tanto amava i fiori. Che aveva riempito il giardino di narcisi, azalee, rododendri, camelie, rose, ortensie… E che invidia faceva alle vicine la loro piccola casetta di mattoncini rossi incorniciata da tutti quei fiori!
Lei sapeva tutto sulle piante: come curarle, come mantenere più a lungo le fioriture, come potarle. Lui tornava a casa la sera e veniva accolto dai fiori, ma il geranio… il geranio era il suo preferito.

Si alzò dirigendosi verso la finestra e la aprì. Sospirò guardando il geranio. Troppo presto, ancora nessun bocciolo, la primavera era ancora lontana. Mentre guardava il geranio un volto di donna apparve alla finestra difronte. Per Dudley fu troppo.
Prese il vaso col geranio e lo scaraventò con tutta la sua forza, lanciandolo contro la finestra della casa accanto, mandando in frantumi vaso, vetro e tranquillità del vicinato.

“Deirdre! Maledetta troia! Io che mi vantavo di te, dei tuoi fiori, di quel fottuto geranio! E tu ti scopavi il fioraio! Proprio nella casa accanto dovevate trasferirvi?! Stronza!”
Deirdre si sporse e lo guardò con aria torva, prese i battenti delle persiane e li chiuse dietro di sé senza proferire parola.

Dudley strinse il pugno e lo agitò al cielo. Chiuse la finestra e si risedette sulla sua poltrona. Guardò il davanzale vuoto dove era sempre stato il geranio.

Che si fottesse anche il geranio. Avrebbe venduto tutto e si sarebbe trasferito in qualche atollo dove era sempre estate.

geranio-rosso-in-vaso


Laboratorio di scrittura Aprile 2013

Questo esercizio prevedeva lo scrivere un testo abbinato a una musica. Io ho scelto “Making of a Cyborg” di Ghost in the Shell.

Fate partire il video, ascoltate la musica e leggete.

 

Il momento più doloroso per la piccola donna fu la cremazione.
Suo marito era morto due giorni prima, dopo una lunga agonia. Vedendolo soffrire aveva riflettuto sulla vita terrena e su quanto fosse effimera la carne: tali pensieri avevano impegnato la sua mente tenendola lontana dalla realtà che stava per affrontare.

Poi lui si era spento, la sua vita si era affievolita come la fiammella di una lanterna che finisce l’olio di combustione. La casa di carne e sangue che era stata il suo amato giaceva lì, immobile e inanimata davanti ai suoi occhi; passò la veglia ad accendere incensi mentre i monaci recitavano mantra, illudendosi che da un momento all’altro lui avrebbe aperto gli occhi e sussurrato il suo nome con voce un po’ roca, come ridestandosi da un lungo sonno.

Solo quando fu cenere e frammenti d’osso, la piccola donna realizzò davvero cosa era accaduto. La figura del suo adorato era sparita e con essa la sua essenza: non l’avrebbe mai più visto. Tutte le illusioni caddero e il suo cuore andò in frantumi con un’esplosione così devastante da lasciare al suo posto un pozzo nero senza fondo.

I monaci la aiutarono a raccogliere i pezzi di osso rimasti integri dopo il rito del fuoco, se li passavano l’un l’altro con le lunghe bacchette di legno fino a darli a lei che li metteva nell’urna di ceramica decorata. Ogni scheggia d’osso era un frammento del suo cuore, e lei li metteva via tutti, con cura e attenzione.

 

Suo fratello venne a trovarla.

La trovò chinata davanti alla haka del defunto marito, mentre sistemava la sotoba col suo nome accanto a quello dei suoi antenati.

“Sorella!” la salutò, e  lei nemmeno si volse, gli occhi fissi sulla tavoletta di legno e sull’inchiostro dipinto che formava i kanji di quello che una volta era stato il nome del suo amato.

“Fratello mio!” disse, e poi, sempre rivolta alla haka, quasi soprappensiero continuò:

“Mi piace il nome che i monaci gli hanno dato per il regno dei morti. Un nome antico ed articolato, quasi nessuno sa pronunciarlo.”

“Questa è una buona cosa, così nessuno disturberà il suo sonno nell’aldilà chiamandolo sulla terra.”

Fecero una pausa, quasi volessero contemplare il silenzio, poi leì sussurrò:

“Avrei voluto restare con lui più a lungo. Mi manca.”
“Sapevi già come sarebbe finita. Ora è tempo di andare, torniamo a casa.”

La piccola donna si mosse in un delicato fruscio di seta e con naturalezza saltò rimanendo sospesa a mezz’aria. Le vesti iniziarono a scivolarle di dosso mentre l’aspetto che aveva celato per così tanto tempo iniziava a prendere forma.

Il fratello la seguì, anche lui aveva cambiato aspetto, dismettendo quello dell’uomo e assumendo quello della volpe. La femmina, che era stata la piccola donna disse:

“Penso che sarebbe consolatorio poter un giorno stare di nuovo insieme in questa tomba, sai?”
“Sono pensieri da umano, sorella. Passeranno.”

I due kitsune dalle cinque code si strusciarono il muso appuntito in segno di affetto, poi iniziarono ad allontanarsi. Prima che scomparisse alla vista la femmina si girò per dare un’ultima occhiata alla tomba dell’amato e finalmente, pianse.

 


Geburah (Rosso) – Lab Settembre 2013

La sala era stata ottenuta scavando un antro circolare nella nuda roccia.
Illuminata da un braciere centrale e da numerose torce affisse alle pareti risplendeva di un rosso cupo e cangiante; la volta gigantesca era sorretta da un enorme pilastro, Il Pilastro della Severità. Per chi si affacciasse per la prima volta in quello spazio, lo spettacolo era garantito.

Subito davanti al Pilastro cinque gradini di pietra conducevano allo scranno su cui sedeva il Grande e Giusto, avvolto nella sua tunica amaranto, la spada appoggiata di traverso sulle ginocchia, il cappuccio alzato a coprirne completamente il volto.

I duecentosedici Timorati di Dio erano disposti lungo i bordi della sala, ciascuno avvolto dalla stessa tunica rossa del Grande e Giusto, sebbene a capo scoperto, e ciascuno di loro era armato di spada priva di fodero. Tenevano l’arma in mano impugnandone l’elsa come se fossero pronti a un imminente combattimento: ma tutto era calmo, i loro volti erano severi, freddi e impassibili.
Solo il rosso delle fiamme danzava sui loro volti e sulle loro vesti, scolpendoli fuori dalla pietra della sala.

Il novizio si fece strada senza che nessuno lo annunciasse. Era giusto che entrasse e lo fece senza esitazione. La parte superiore della sua tunica non era indossata e pendeva dalla vita, appesa alla corda che la chiudeva, lasciandolo a torso nudo.
Difficile dire che età avesse in mezzo alla penombra disegnata dalle fiamme, ma si distingueva la stazza massiccia, una muscolatura ben sviluppata ed era completamente rasato, privo di peli sul corpo, barba e capelli. Lo sguardo era determinato, la mascella marcata, gli occhi fissi sul braciere.
Non era mai entrato nella sala prima, eppure non si era perso un secondo in contemplazione.

Il Grande e Giusto parlò.
“Tu che vieni nella casa del Padre, sei pronto ad affrontare il Suo Giudizio?”
Il suono era cantilenante, come se avesse pronunciato quelle parole migliaia di volte prima di allora. Il novizio non si scompose, si inginocchiò e la sua voce riecheggiò nitida e forte, in risposta a quella che aveva appena parlato.
“Sì, sono pronto.”
“Allora che sia fugato ogni dubbio sulla tua inclinazione verso il Male!”
A queste parole tre Timorati di Dio si avvicinarono al braciere, uno di loro estrasse un pugnale e lo passò ripetutamente tra le fiamme, gli altri due si portarono ai lati del novizio e lo afferrarono per le braccia cercando di immobilizzarlo. Ma lui si divincolò, incrociò le braccia al petto e si piegò con il busto in avanti, offrendo la propria schiena all’uomo col pugnale.
Questi iniziò a incidere la carne e il sangue prese a sgorgare vermiglio, mentre il novizio respirava intensamente, senza emettere lamenti e restando immobile. Quando il pentacolo fu completato il coltello lordo di sangue fu lasciato davanti alle sue ginocchia e i tre uomini si ritirarono.

Il Grande e Giusto tornò a parlare.
“La prima prova è stata completata. Tu ora porti il Simbolo, ma possiedi solo un pugnale lordo del tuo stesso sangue. Per essere un vero Timorato di Dio e combattere per il Bene Maggiore ti serve una spada. E solo duecentosedici possono essere le spade della mano sinistra di Dio. Quindi scegli attentamente chi sfidare e vinci la spada o muori da uomo giusto.”

Il novizio si alzò in piedi. Prese il coltello che aveva davanti e osservò il suo sangue illuminato dalle fiamme. Due tipi di rosso così diverso che si fondevano su una lama creavano un effetto quasi ipnotico. Non c’era però tempo da perdere, doveva finire il suo rituale, prendere il posto di uno degli altri confratelli.
Il dolore sulla schiena era lancinante e annebbiava la mante, rallentava i movimenti. Se chiudeva gli occhi ogni fitta corrispondeva a un lampo vermiglio nella sua mente. Girò intorno al braciere guardando nella direzione dei confratelli, poi quando fu ai piedi dello scranno, restando sempre impassibile, si girò di scatto e lancio il coltello con forza e precisione.
La lama andò a conficcarsi nel cappuccio del Grande e Giusto, che non riuscì nemmeno a emettere un suono prima di accasciarsi in avanti.
Il novizio salì i cinque scalini e raggiunse lo scanno, liberò la testa del Grande e Giusto e notò che il pugnale si era conficcato nella tempia del vecchio uomo. Era così annoiato che non stava nemmeno guardando in quella direzione.

Il nuovo Grande e Giusto prese la spada e ne strinse saldamente l’elsa, quindi si caricò in spalla il corpo del vecchio, scese gli scalini e lo andò a buttare nel braciere.
Nessuno parlò, tutti tacevano e sapevano. Da tempo i Timorati di Dio avevano anteposto il Bene Minore a quello Maggiore e questo non era ammissibile agli occhi di Dio. Ma la legge è legge e nessuno nella setta avrebbe potuto opporsi senza creare disarmonia a sua volta.

“Il Cielo è dei violenti” disse il Grande e Giusto, guardando il sangue che sfrigolava tra le fiamme. Si tirò su la tunica e alzò il cappuccio, andandosi a sedere sullo scranno, con la spada ancora saldamente in pugno.

geburah


Il buffardello – Lab Maggio 2014

La fine dell’estate ti coglie alla sprovvista. Il clima è ancora mite, la luce è calda e avvolgente, ma se non stai attento il buio scende in fretta in questi boschi di castagni, così quando l’ombra delle piante s’allunga è già tardi per avviarsi verso casa.

Capita che arrivi che s’è già fatta ordinotte e non hai sistemato il ginepro nella stalla e all’uscio, e il buffardello potrebbe essere già entrato.
Cosimo non credeva a queste storielle che gli raccontava la nonna per farlo star buono da bambino, ma uomini grandi e grossi di Corsanico hanno visto coi loro occhi animali terrorizzati nelle stalle, battenti delle case che si schiantavano per un vento innaturale e sentito le risa… le risa maligne che si levavano col vento stesso!
E la sua sicurezza ha vacillato.

Allora succede che Cosimo non sta più tanto tranquillo quando rincasa tardi la sera, e innanzi fa tutti gli scongiuri che gli ha insegnato da bambino la nonna.
Controlla la stalla, e gli animali sembrano tranquilli. Mette il ramo di ginepro sulla porta, che si sa mai sia ancora in tempo. Se il buffardello non è ancora entrato, prima dovrà mettersi a contare tutte le foglie e probabilmente preferirà trovare un altro posto dove andare a fare i suoi dispetti.

Ora è il momento della casa, appende del ginepro anche all’uscio, sperando che non sia troppo tardi, sperando che basti; quindi controlla che la porta sia ben chiusa e ci appoggia una scopa rovesciata, il manico di castagno tocca il pavimento, mentre i rametti di erica sono appoggiati al battente. Nessuno gli ha mai spiegato perché si debba fare così. Lo fa e basta. Come si porta dietro la candela fatta di tre tipi diversi di cera, lo faceva la nonna e tanto è sufficiente a convincerlo che accendere quell’esatta candela di notte durante una visita del buffardello lo ricaccerà subito sul noce più vicino. Sono riti antichi e potenti, lo rassicurano, funzioneranno.

Mangia qualcosa, una cena frugale con cacio e pane di patate con un paio degli ultimi fichi rossi spalmati sopra, poi se ne va a letto. Le giornate si accorciano e le sere iniziano a essere fredde. Si copre bene con la pesante coperta di lana lavorata a quadri da sua madre e pensa alle cose da fare l’indomani nella vigna. Ci sarà un buon raccolto, è stata un’estate calda. C’è tanto lavoro da fare, dovrebbe prendersi qualcuno ad aiutarlo, magari dovrebbe cercarsi una moglie, ormai ha compiuto vent’anni. Sarebbe tutto più facile se la guerra e la malattia non gli avessero portato via tutti. Erano rimasti lui e la nonna, ma povera donna, l’inverno l’aveva sconfitta. Ma lui se la cava, ha la casa, i campi, le bestie. Sono i soliti pensieri che lo traghettano ogni sera dalla veglia al sonno.

Poi però qualcosa lo riporta indietro. Ha i piedi gelati e un senso di oppressione al torace.
“Birba! Bestiaccia, levati, che non respiro!” Credeva di aver lasciato fuori casa il gatto e invece quello gli sta tranquillo a dormire addosso.
Per tutta risposta il gatto si alza e inizia a camminargli sopra, poi salta giù dal letto con un tonfo sordo.
Cosimo infila i piedi freddi sotto le coperte e sta per rimettersi a dormire quando un campanello di allarme lo tiene in allerta per qualche secondo. Birba il gatto nero è silenziosissimo, non avrebbe mai fatto quel rumore scendendo dal letto.
Resta in ascolto e tutto tace. La paura a volte gioca brutti scherzi, così si obbliga a rilassarsi ed è sul punto di tornare nel mondo dei sogni quando sente un risolino sommesso e in un attimo i suoi piedi sono di nuovo scoperti. Un secondo di silenzio e poi rumore di passetti veloci che vanno verso la finestra, e aprono gli scuri.

Adesso è paralizzato dal terrore.
Sa che dovrebbe alzarsi e accendere la candela. Sa che dovrebbe dire al buffardello di andare via, ma non ci riesce.
Si maledice perché doveva prima mettere il ginepro alla porta di casa e dopo alla stalla. Nel buio i secondi sembrano secoli.
Poi un rumore rompe il silenzio. Un altra risatina e un tamburellare sui vetri di piccole nocche. Sembra quasi che tenga il ritmo di un motivetto e ridacchia compiaciuto. Cosimo resta in ascolto, ormai è solo udito, sente un altro tonfo e passetti veloci che si avvicinano. Il suo cuore potrebbe esplodere quando sente il mostriciattolo che si arrampica di nuovo sul suo letto. Gli cammina vicino e lui è paralizzato dal terrore, sa che la creatura è a un palmo dal suo viso, sa che lo osserva. E poi di nuovo si mette a ridere, di gusto. Cosimo non capisce cosa ci sia di tanto divertente in quello che fa questo spirito, nel terrorizzare bestie e cristiani, ma il buffardello continua a ridere con una risatina acuta e in qualche modo contagiosa, al punto che quando mette le sue mani tra i capelli di Cosimo lui non si irrigidisce come prima, ma anzi aspetta incuriosito cosa verrà dopo.

E quello che viene dopo è inaspettato. Perché il buffardello tira fuori un pettinino e inizia a pettinargli i capelli accompagnando l’operazione dai suoi soliti risolini. Poi prende un pannetto e inizia a pulirgli le orecchie, i risolini sembrano comporre il motivetto di prima. Cosimo è confuso, adesso i suoi occhi si sono abituati all’oscurità e la luce lunare che filtra dalla finestra è sufficiente perché lui riesca a vedere. Si fa coraggio e guarda il buffardello. È una creaturina simile a un ometto in miniatura, alto meno di mezzo metro, esile, con la bocca larga e le orecchie a punta. Gli occhi sono completamente neri e lo scrutano di rimando. Sghignazza più forte ora che Cosimo lo guarda, sembra essere al settimo cielo. Posa il pannetto e gli si siede sul petto, gli pizzica le guance. Ha dita lunghe e artigliate, ma non lo graffia. Cosimo non riesce a vedere se è vero quello che gli raccontava la nonna, se le mani del buffardello sono state bucate da san Giovanni per evitare che soffocasse i bambini nel sonno, come vuole la leggenda: è troppo buio.

Il buffardello non sembra voler smettere le smancerie nei confronti di Cosimo, che ormai non ha quasi più paura. Si alza a sedere e lo spiritello rotola giù sul letto. La capriola lo diverte, perché scoppia in una risata di pancia e arriva a battere il piccolo pugno sul letto. Guarda Cosimo come si guarda qualcuno che ti ha appena raccontato la storiella più divertente di tutta la tua vita, prende fiato e chiude la risata con un altro risolino soddisfatto.

Fruga nella sua borsa e tira fuori un piccolo otre e lo porge a Cosimo. Cosimo sa che non è bene accettare il cibo delle fate, ma a questo punto non sa più se è sveglio o se sta sognando, così accetta e beve un sorso di una bevanda dolcissima, che sa di nettare di fiori e di ricordi d’infanzia. Passa il piccolo contenitore al buffardello che ridacchia e beve a sua volta. Ora Cosimo ha la testa leggera e si sente tanto stanco, ha sonno, ma un sonno senza pensieri, come solo i bambini che non conoscono la fame e la guerra possono avere.
Si addormenta subito e il buffardello gli si rannicchia accanto, sotto le coperte, con un ultimo risolino soddisfatto.

Image

(Foto di Melania Marchi, http://www.escursioniapuane.com/itinerari/itinerario.aspx?Id_Itinerario=4 )


Caro babbo Natale – Lab Dicembre 2013

Caro babbo Natale,
quest’anno mi sono comportato molto bene e ho fatto tutto quello che c’era da fare per essere messo nella lista dei bambini buoni, per questo sono sicuro che quando leggerai questa mia lettera farai del tuo meglio per esaudire il mio desiderio.
Per questo Natale ti chiedo una cosa soltanto: fai sparire il bambino dietro la tenda.
Ti prego, ti supplico…
Ogni anno la sera della vigilia vado a dormire sapendo che al mio risveglio lui sarà là, dietro la tenda della finestra grande di sala, vicino al camino. I suoi piedi spuntano appena da sotto la piega della stoffa e io riesco a vederlo in controluce. Non cambia mai, ogni volta è sempre uguale, immobile e ci fissa.
Dal suo angolo riesce a vedere tutta la famiglia che sta vicino all’albero e si scambia i regali, e poi intorno al tavolo per il pranzo. Resta lì tutto il giorno e osserva. Gli altri non lo vedono e dopo le prime volte che lo indicavo ho smesso di farlo perché nessuno mi credeva.
Quindi chiedo a te, caro Babbo Natale, tu che puoi viaggiare su una slitta magica e vivi con gli elfi fatati, aiutami! Fallo andare via, convincilo a lasciarci stare!
Perché io ho davvero tanta paura di questo bambino che resta a fissarci un giorno all’anno, ogni anno, fermo immobile. Perché ho paura che un giorno decida di scostare la tenda e muoversi… allora non so proprio cosa potrebbe fare.

Sicuro che farai di tutto per aiutarmi,
tuo Howard.

Image


Incontro nel sottosuolo – Lab Gennaio 2014

Il volo era andato bene. Era iniziato come un normale salto da una rupe a strapiombo sul mare, poi però ero riuscita a rallentare poco prima di toccare l’acqua e avevo iniziato a risalire nuotando nell’aria, fino a raggiungere il vapore delle nuvole grige e pesanti che mi stavano tutto intorno.
Le nuvole erano tiepide, volarci dentro era piacevole e rilassante. Ero felice.
Poi mi sono svegliata.
C’è sempre una nota di malinconia quando mi sveglio da un sogno così vivido e bello.
Il braccio destro mi prudeva, come tutte le mattine da quando l’avevo perso. Avevo trovato un modo furbo per grattarlo: immaginavo che fosse ancora lì, cercavo di focalizzare quale parte stesse prudendo e iniziavo a immaginare di grattarlo.
A volte funzionava, altre volte no.
Questa mattina in particolare, il prurito al braccio non mi dava tregua, così decisi che era meglio uscire e fare qualcosa.

“Xay, ciao!”
Sapevo che l’avrei trovato già seduto a bere al tavolo del Blue Rose Inn. Lui mi fissò senza vedermi (era cieco) e mi disse:
“Kaja! Che mi prenda un colpo! Credevo non saresti più uscita dalla tana!”
“Hai ragione, sono stata rinchiusa troppo tempo, è giunto il momento di agire. Per questo mi serve una Talpa. Voglio riprendermi il braccio.”
L’ometto con gli occhi bianchi annusò l’aria, per sincerarsi che non lo stessi prendendo in giro. Sono gente in gamba le Talpe, stanno nel Mondo di Mezzo e fanno da tramite per chi vuole spostarsi tra l’Ipogeo e l’Epigeo. Non le inganni facilmente e Xay è una delle migliori.
“Che io sia maledetto, vuoi davvero andartelo a riprendere!”

Un viaggio nell’Ipogeo non è una cosa facile, soprattutto per tipi come me abituati a stare all’aria aperta, però non ne potevo più di essere storpia e di poter volare solo in sogno.
Gli accessi al mondo di sotto sono numerosi, le Talpe li conoscono tutti e Xay optò per un sentiero sicuro, un po’ lungo ma privo di intoppi: non avevamo fretta.
L’Ipogeo aveva un suo fascino. Tutte le volte che ci tornavo mi ripetevo le stesse note mentali: stalattiti e stalagmiti crescevano in foreste sotterranee in ampie caverne o in stretti corridoi, quarzi e altre pietre dure adornavano la nuda roccia come decori floreali colorati. Per gli occhi di chi era abituato a quella poca luce, quel mondo doveva essere una meraviglia, per me era un po’ troppo buio per passarci l’esistenza, ma potevo capire i nativi. Insomma, tra quelli della mia specie mi si poteva definire “una di ampie vedute”, ecco.

In questo ambiente potrebbe sembrare impossibile rintracciare quello che cercavo, ma negli anni mi ero convinta che il mio braccio prudesse quando se ne usavano i poteri, e adesso il prurito era incessante: l’avrei trovato rintracciando la sua magia.
Xay fiutava l’aria e l’aria ci conduceva al mio braccio. E’ facile quando sei un’elementale dell’aria, sei sottoterra e hai una Talpa a disposizione. Verrebbe da chiedersi perché non l’avessi fatto prima. Il vero motivo era che sapevo chi l’aveva preso e non lo volevo più incontrare. Preferivo restare piedi a terra a grattarmi un arto fantasma, piuttosto che rivedere quella faccia un’altra volta.

Più ci avvicinavamo al braccio più il prurito diventava insopportabile. Quando fummo davanti all’ingresso di una grotta ci fermammo. La Talpa aveva fiutato l’origine della brezza, io volevo rotolarmi in terrà pur di far smettere il fastidio: c’eravamo.
Xay non mi avrebbe accompagnato oltre, ma non importava. Quello che sarebbe successo dopo riguardava me e me soltanto.

La grotta era immensa, non se ne vedeva la fine. Ma non mi serviva vederla per sapere chi ci abitava.
“Treor! Treor, dove sei? Fatti vedere!”
Dal profondo della terra qualcosa si mosse, venendomi incontro.
“Kaja! Qual buon vento!”
Sempre stato un burlone, Treor. Non so se tutti gli elementali della terra fossero come lui, non ne conoscevo altri. E pensare che un tempo lo avevo trovato simpatico. Un tempo mi piaceva.
“Treor, possiamo smet…”
Le parole mi morirono in gola. Quando fu abbastanza vicino lo vidi. Usava il mio braccio come un ventaglio. Il povero arto si dimenava inerte e emanava la leggera brezza marina che emana il mio corpo quando volo. Se non fossi stata fuori di me in quel momento, avrei pensato che il braccio mi stesse salutando.
E io che pensavo che lo stesse usando per chissà quale scopo. Ma già… era di Treor che parlavamo. Poteva usarlo come grattaschiena. E forse l’aveva fatto… meglio non pensarci.
“Posa il mio braccio. Ora.”
“Ma mia cara, suvvia! Sei stata tu a dirmi che potevo prenderlo!”
Ero furiosa.
“Io ti ho detto che potevi prendere tutto quello che volevi e sparire dalla mia vita! Non intendevo dire che potevi prenderti anche parti di me! Scema io che sono andata a confondermi con un elementale della terra!”
Treor si era tolto il sorrisetto ebete dalla faccia e adesso sembrava arrabbiato anche anche lui.
“Tu ti sei presa gioco di me! Hai voluto un gingillo con cui trastullarti per capriccio e quando ti sei stancata mi hai gettato via! A te importa solo di te stessa, per questo ti ho portato via l’unica cosa a cui tenevi, l’unica cosa che saresti mai venuta a riprendere!”
“Fammi capire, tu mi hai staccato un braccio perché volevi rivedermi?! E non ti meravigli del fatto che io abbia voluto chiudere con te?! Senza il braccio sono sono più riuscita a volare, non sono più salita nell’Epigeo… Sono rimasta nel Mondo di Mezzo, dove stanno i reietti e le Talpe…”
“Dove stavamo anche noi. Dove avevamo deciso di stare! A metà strada tra il mio mondo e il tuo. Tra cielo e terra, tra luce e ombra. Io ti amavo e tu mi hai mandato in frantumi il cuore.”
“Tu non mi amavi, amavi l’idea di amarmi e di tenermi con te. E il tuo cuore è andato in frantumi proprio come la pietra di cui è fatto.”
“Parla la signorina coerenza! Oggi mi giuravi amore eterno e il giorno dopo volavi via dicendo che non sapevi se m’avevi mai amato davvero! Quando si dice volubile come il vento!”

Mi fermai un secondo. Era un copione già recitato troppe volte, a questo punto ognuno prendeva la propria strada, io volavo via, lui scendeva nelle sue grotte. Poi, quando c’era passata, tornavamo nel Mondo di Mezzo.
“Adesso non puoi più volare via, eh?”
“No, Treor, non posso. Ti sei preso il mio braccio. Hai vinto. Sei felice?”
Treor non si aspettava quella mia risposta, perché parve spaesato e non disse niente. Così continuai.
“Sai cosa mi sono chiesta in tutto questo tempo? Non tanto perché litigassimo. I motivi sono più che palesi. Ma perché tornassimo. Perché dopo ogni litigio identico all’altro, alla fine, tornavamo nel Mondo di Mezzo. Cosa ci lega Treor? Cosa rende noi due così speciali agli occhi dell’altro?”
Treor guardò il mio braccio che teneva ancora in mano. Aveva smesso di scuoterlo, il prurito era cessato. Che ci facevi ogni mattina col mio braccio, Treor? Eh? Meglio non saperlo…
“Io ti amavo davvero.”
“Tu volevi catturare il vento. Io volevo ammorbidire la roccia. Non si può fare, a meno di non cambiarne la natura stessa.”
“Io ti amo ancora.”
“Restituiscimi il braccio, allora. Fammi volare di nuovo. Sussurrerò il tuo nome nel vento e saprai che non ti ho dimenticato. E quando vorrai venirmi a trovare nell’Epigeo, mandami una Talpa. Forse un giorno farò lo stesso quando vorrò scendere qui. Mi è sempre piaciuto qua sotto, anche se non si può volare.”
Mi guardò un po’ incerto. Capivo che fosse combattuto, il braccio era la sua unica garanzia di vedermi di nuovo, l’ultimo legame certo. Poi si decise e me lo fissò direttamente alla spalla, dove l’aveva staccato. Accarezzò le due parti separate che si riunirono come se non si fossero mai divise.
Il senso di gioia che mi pervase era indescrivibile. Avevo bisogno di volare, subito, adesso. Ma lì sotto non potevo.
Se il prurito mi era sembrato insopportabile, in confronto a quello che provavo adesso, era niente.
“Possiamo vederci anche nel Mondo di Mezzo, quando capita…”
C’era speranza nel suo sguardo.
“No, sono stanca di stare nel Mondo di Mezzo. Basta compromessi. Adesso ho bisogno di tornare a volare.”

Image


Monologo – Lab Febbraio 2014

Respiro a fondo ogni volta che la situazione inizia a farsi pesante. L’odore della chaise longue in pelle mi rilassa, in qualche modo, o forse quello di fare un profondo respiro senza che lui me lo dica è una specie di rituale che si è instaurato col tempo; non c’ho mai pensato su molto. In realtà cerco di non pensare e basta quando vengo qui.
“Riesci a dormire meglio?”
La voce del dottore mi obbliga a focalizzare l’attenzione anche se non vorrei.
“A volte sì, a volte no. Dipende.”
“E da cosa dipende?”
Sospiro. O forse è un altro respiro profondo, non lo so.
“Da molti fattori. Da cose successe durante la giornata, anche piccolezze che innescano ricordi, cose della quotidianità…
Tranelli della mente che ti trafiggono come pugnalate; come apparecchiare per sbaglio un posto in più a tavola, sapere di una notizia e pensare subito di andargliela a dire, per poi realizzare. Quel momento di illusione in cui tutto sembra ancora com’era che all’improvviso ti viene strappato via, lasciandoti nudo ad affrontare il dolore del mondo intero.
Saranno cose che ha sentito dire mille volte, dottore, saranno banalità, ma è un tipo di banalità che ti toglie il respiro, che ti affossa i battiti cardiaci. Ci sono momenti in cui mi sembra che il lutto mi trafigga la gola e il dolore diventa fisico, un tentativo di pianto si espande e mi muore nella trachea perché non ho più la forza di tirarlo fuori.
Tutto è accompagnato da un senso di ingiustizia e di impotenza, con la consapevolezza che il mondo è diventato più buio: come posso pensare a domani, al futuro, quando tutto può essere stravolto nel giro di un paio d’ore, senza preavviso? Sa cosa vuol dire non avere il conforto di accomiatarsi da qualcuno? Cosa vuol dire dover convivere con tutte le cose lasciate in sospeso, con quel senso di incertezza e non finito… A volte basta andare a dormire coi piatti ancora da lavare, svegliarsi e trovarli lì per avere una pessima giornata. Stupido, no? Cosa saranno mai i piatti non lavati, i panni non stesi, i documenti rimandati a domani di fronte ai problemi veri che ti mette davanti la vita? Eppure bastano per fare da ago della bilancia emotiva. Le cose rimandate a domani ti fanno pensare che potresti non avercelo più un domani, e che potresti lasciare ad altri l’incombenza delle tue cose non fatte. È questo che non mi fa dormire la notte. Oltre alla mole di dolore che affronto quotidianamente, per cose più che ragionevoli c’è la mole extra per le cose che a un osservatore non troppo attento, tanto ragionevoli potrebbero non sembrare.”
Tiro nuovamente un respiro profondo. Le parole mi sono scappate di corsa dal petto, non sono passate per il cervello, in una sorta di arco riflesso tra anima e bocca; adesso ho bisogno di riprendere fiato.
“L’elaborazione del lutto è un processo lungo e complesso. Non puoi pretendere di superare la perdita in così poco tempo. E non puoi nemmeno darti delle regole su cosa sia o meno stupido, non in questo stadio. Ne riparleremo la prossima settimana, va bene?”
Vorrei fargli presente che anche pensare a cosa semplici come la settimana prossima mi causano una piccola fitta al petto, ma sono stanca e vorrei che lo capisse, che diamine è pagato per capirlo.
E invece sospiro di nuovo, stavolta sono sicura che sia un sospiro.
“Va bene. Alla settimana prossima.” dice la mia voce, mentre ripeto a me stessa che devo assolutamente trovarmi un nuovo terapista.

Image


Èscrivere

C’è questa community fantastica in cui mi sono imbattuta in un periodo un po’ difficile della mia vita. Poi il periodo difficile non se n’è andato, è proseguito in un crescendo, con un climax, e ora ha lasciato dietro di sé delle scosse di assestamento.
Alcune sono così forti che quasi non ce la faccio a stare in piedi.

Così, non mi sono più allontanata da quella bella community, dove ho rotto tanto le scatole, fatto tante pulci, trovato tante persone meravigliose e qualche elemento di disturbo, ma quello è fisiologico, fa parte dell’ecosistema di qualsiasi gruppo di persone.
Mi hanno fatto riscoprire la voglia di scrivere e mi hanno insegnato che non devo usare le eufoniche ogni volta che vedo una vocale abbandonata.

Se volete fare un salto anche voi (disse alla platea vuota) lo trovate qui.

Ci sono vari contest di narrativa e poesia,  e un laboratorio di scrittura mensile, che io ho trovato utilissimo.
Visto che mi sembrava importante raccogliere un anno di scritti vari, ho deciso di metterli su questo blog, col tag “èscrivere”; spesso non sono dei racconti fatti e finiti, ma sono frammenti, esercizi scritti per i lab. Però ognuno di essi ha avuto un piccolo significato per me.

Non ho la pretesa di dire che siano belli, non l’ho mai avuta. Sono qui per me, come atto estremo di egoismo.