Sogni

L’erba è alta, il cielo è nero. Il miagolio arriva sommesso, ma riesco a capire da dove proviene: un casolare abbandonato poco distante. Mi faccio strada a fatica, le sterpaglie secche mi si avvinghiano alle caviglie. Entro nel rudere e vedo mia sorella nel corridoio all’ingresso: non mi guarda, sembra assorbita dai suoi pensieri. Tra me e lei sul corridoio si aprono diverse porte, su ciascuna ci sono incisioni di temi particolari: le foglie e i fiori, disegni geometrici, geroglifici. Su ciascuna porta, nel punto in cui ci si aspetterebbe il numero di stanza in un albergo, è intagliato un occhio. Può essere chiuso o aperto, è un normale segno inciso nel legno.

Apro alcune di queste porte, dentro ogni stanza vedo un armadio con gli stessi intagli presenti sulla porta, occhio compreso; solo che se sulla porta l’occhio è aperto sull’armadio è chiuso e viceversa.

Nella stanza di fronte a mia sorella l’occhio esterno è chiuso e quello interno è aperto. C’è un letto nella camera e persa tra lenzuola logore piange una bambina: avrá tre, forse quattro anni. Mia sorella mi dice che è sua figlia. Io vado su tutte le furie: come ha potuto nascondermi una cosa così importante e perché tiene lì la bambina?!

“Non si può spostare.” È tutto quello che mi risponde e poi torna confondersi tra i suoi pensieri, come se io, la bambina e la casa non esistessimo più.

Entro nella stanza e raccolgo la bimba, lenzuola e tutto. Quando la alzo dal letto l’occhio aperto inciso sull’armadio si chiude e quello sulla porta si spalanca. La casa adesso sa, e mi ostacola: ogni fibra del mio corpo scatta come un nervo scoperto sollecitato. Tutto è dolore, sforzo e fatica.

Non mi lascio intimorire, stringo la bambina che piange come il gattino che stavo cercando quando sono arrivata qui, digrigno i denti nello sforzo immane di muovermi, ma non riesco ad avanzare.
Mi sveglio.


Il colore rosso delle fragole

Sono giorni difficili. Davvero, se ripenso agli ultimi anni della mia vita mi rendo conto che ho vissuto giornate di disperazione immerse in un mare che alternava ondate di stress a correnti di depressione.
Adesso è dura, ma almeno c’è uno scopo. Sembra strano, ma adesso c’è una prospettiva per il futuro, per quanto dura sia la situazione.
Fatto sta che mi sto sforzando, ogni giorno, di trovare un motivo semplice per essere felice o serena, una sensazione, una frase, un qualcosa che mi conforti nei vari momenti di tristezza e sconforto.
A volte è il profumo della bacca di vaniglia, altre volte è vedere uno scoiattolo andando a lavoro. Le giunchiglie che fioriscono prima del tempo, e ti sorprndono; il fusto contorto di un glicine; la sensazione dell’impasto tra le mani mentre lo lavoro, il profumo dei biscotti appena sfornati, la persona che passa a farti un saluto e ti cambia la giornata…

 

Oggi era il colore rosso delle fragole.

Un colore meraviglioso, forte, vivo, intenso, allegro. Promesse d’estate, ricordi d’infanzia, c’erano talmente tante buone cose in quel colore rosso, che niente poteva batterlo. Era il mio pensiero positivo della giornata.

Ma a volte non basta nemmeno il colore rosso delle fragole. Semplicemente, contro tutti i cattivi pensieri (e le cattive persone) non è stato sufficiente.

 

Oggi ha vinto la donna che mi ha riso in faccia, schernendomi per le mie miserie. Ha vinto il vuoto e la solitudine.
Capitano giorni così, ci sono già stati e ce ne saranno ancora.

Mi spiace solo di aver sprecato una cosa così bella in un giorno così brutto.


Solo per poco, solo per sempre

Ora, capita che mi venga proposto un racconto su commissione, per una CE che sembra interessata a pubblicare romance con una nota di fantascienza/fantasy/horror.

Succede che la sfida mi coinvolge e mi pianifico la mia bella storia.

Come è ovvio, va a finire che da quando l’ho pensata a quando l’ho finita di scrivere sono passati tre anni e la CE è bruciata e le sue ceneri sparse nel cosmo (più o meno… la storia è diversa, ma più noiosa).

Comunque, quelle anime pie di Èscrivere si fanno carico di adottare il mio piccolo progetto e lo trasformano in un ebook, scaricabile gratuitamente. Si occupano di grafica ed editing e anche della promozione. Nel giro di giostra ci scappano anche un paio di recensioni, tipo questa e questa.

Insomma, l’unica disadattata che non l’ha ancora pubblicizzato sono io. Quindi rimedio, eccovi “Solo per poco, solo per sempre“, che un tempo si chiamava “Titolo bello” a sottolineare l’innata capacità della sottoscritta a trovare i titoli giusti al momento giusto.

irenebanner-1024x702
E colgo l’occasione, di nuovo, per ringraziare chiunque abbia reso possibile tutto questo.


Papà, portami a casa

Incapaci. Maledetti incapaci, pazzi furiosi. Luride bestie che non capiscono niente e mi riempiono delle loro porcherie per farmi stare buono. Ciechi che non vedono oltre il loro fottuto naso attaccato alla loro schifosa faccia.

Vorrei vederceli loro, a vivere come vivo io!

Zotici. Zotici e bifolchi.

Papà… papà, dove sei? Papà mi capisce, lui sa che non invento le cose, lui mi crede.

Lui non mi riempie di medicine perché dico che il mio doppio mi perseguita. Vive la mia vita, mentre sono rinchiuso qui a contare le giornate vedendo attraverso una finestra con le griglie di ferro.

Il mio doppio c’è sempre stato. Nessuno se ne curava quando da bambino era un amico immaginario. Papà ne rideva e io con lui. Non avevo paura. Poi il mio doppio ha iniziato ad essere reale. Giocava coi miei giochi, metteva i miei vestiti, mangiava il mio cibo. Ma papà mi diceva di essere buono e comportarmi bene, altrimenti la mamma si intristiva.

Del mio doppio non se ne accorgevano.

Andava alla mia stessa scuola, sedeva al mio banco, parlava coi miei amici e nessuno si accorgeva che non ero io.

Poi di colpo non è stato più divertente, vero papà? Perché nessuno rideva più?

Mi avete rinchiuso qui, con queste bestie vestite di bianco che non capiscono niente e mi fanno ingoiare il loro veleno con la forza. Dicono che è nella mia testa, che fanno tutto per il mio bene, e intanto lui vive la mia vita…

Ma io lo vedo anche qui, papà, lo vedo anche qui!

È nello specchio e negli altri riflessi, dietro di me quando non guardo, si sposta insieme alla mia testa, è in strada, all’aperto, mentre io sono rinchiuso dietro la griglia della finestra.

Vienimi a prendere papà, portami a casa…

L’estate stava lasciando precocemente spazio all’autunno, e le foglie sugli aceri delle decorose villette di Springfield Boulevard iniziavano a ingiallire ed arrossarsi sebbene non si fosse ancora raggiunta la seconda settimana di settembre.

L’uomo col fedora attraversò la strada che lo separava dall’imponente edificio in mattoncini rossi, esitò un momento sulla soglia dell’ampio portico in legno bianco, contemplando l’architettura georgiana portata agli estremi nelle proporzioni squadrate dello stabile, poi si tolse il cappello, entrò e si diresse al primo piano.

«Dr. Bender, posso entrare?» chiese bussando alla porta aperta.

Seduto alla scrivania, il Dr. Bender era intento a sfogliare un fascicolo. Senza staccare gli occhi dai fogli dattiloscritti fece cenno con la mano di entrare e indicò la sedia davanti a sé.

Quindi esalò un profondo sospiro, lasciò andare il fascicolo aperto sul tavolo e guardò l’uomo come se non sapesse come cominciare il discorso e sperasse che lui potesse toglierlo dall’impasse. Così fu.

«C’è un motivo particolare per cui mi ha chiamato? Ci sono miglioramenti?»

«Vorrei poterle dire di sì, ma purtroppo il caso di Simon non risponde ai trattamenti farmacologici. Il paziente presenta gravi stati allucinatori persistenti, manie persecutorie, originatesi dal mai superato evento traumatico della morte…»

Il dottore stava ripetendo meccanicamente tutto quello che aveva appena letto sulla cartella.

«Dottore, la prego. So esattamente come è Simon. Lo conosco da quando è nato. Cosa suggerisce di fare? Perché mi ha chiamato?»

«Vorrei che acconsentisse a lasciarci provare altri trattamenti, non farmacologici.»

«Volete friggergli il cervello con l’elettroshock?»

«Suvvia Mr. Page, siamo al Creedmoor Psychiatric Center nel Queens, non in qualche sanatorio sovietico! Abbiamo ogni ritrovato della scienza medica e tecnologia all’avanguardia, con questi nuovi strumenti, i computer, che permettono di analizzare i dati e…»

Ancora una lezione imparata a memoria e ripetuta.

«Ho capito dottore, va bene. Ve lo lascio fare. È tutto vostro, non ne voglio sapere più niente. Sono vent’anni che mi accusa di vivere la sua vita. Credo che sia giunto il momento che io inizi a vivere la mia.»

«Vede, questa è la cosa incredibile. Il suo rifiuto assoluto di accettare la sua esistenza. Attualmente non riesce nemmeno più a distinguere sé stesso da lei, posto di fronte a uno specchio è convinto di vedere lei. Abbiamo dovuto oscurare ogni superficie riflettente perché manifesta comportamenti autolesionisti.»

L’uomo col fedora in mano, fissò il fascicolo aperto e vide una foto di due bambini identici, seduti su un portico di legno di una villetta decorosa. Probabilmente da qualche parte c’era un acero, anche se nella foto non si vedeva. L’altra immagine era una versione di sé, più pallida e magra, con uno sguardo spiritato e sconvolto dalla malattia mentale, che non riusciva più a riconoscere.

***

Questo racconto è stato scritto per il laboratorio di scrittura di settembre 2014 di escrivere.com

Il laboratorio era anonimo, un editor esterno ha letto e commentato i vari racconti senza avere idea di chi fosse l’autore.
Io ho raccolto qualche commento e qualche perplessità, ma sono soddisfatta.
La traccia doveva prevedere un ribaltamento e la storia doveva essere ambientata in una città straniera.

Questo è il commento dell’editor:
Questo racconto mi mette in difficoltà. Inizio dal principio, così non mi posso sbagliare, come fanno tutti i bravi scolari quando cominciano un tema. Innanzitutto devo dire che non è scritto male, ha un suo perché di stesura, anche se mi trovo a dover riflettere sulle scelte che ha fatto l’autore riguardo al come comunicarci il suo “€œribaltamento” e a domandarmi, se, usando questa tecnica, sia riuscito nel suo intento oppure no. Intanto mi limito a dire che è un’€™idea che ho visto già  sfruttata in precedenza da un altro racconto, che ha cercato di usare un tema simile, quello della malattia mentale, e non è semplice creare un ribaltamento con questo presupposto, ma l’autore ha trovato una soluzione portandoci due punti di vista differenti che dovrebbero condurci a una soluzione finale ribaltata. Una scelta pericolosa e azzardata, per niente facile. Mi sto dilungando: il racconto mi è piaciuto.

La traccia e lo stile: approvo la scelta dell’autore di diversificare i due diversi punti di vista usati anche per quanto riguarda lo stile. Si nota la differenza, quindi vuol dire che mi trovo di fronte a una persona che si rende conto di dover comunicare non solo attraverso il contenuto, ma anche attraverso la resa stilistica. Ȉ un ottimo inizio per intraprendere la via della scrittura. Una prima parte vede il nostro “pazzo”€ che parla in prima persona al presente, certo ricorda, quindi poi usa il passato. Si capisce che è arrabbiato perché è stato rinchiuso in gabbia e aspetta il papà  che lo riporti via. Poi si affaccia una nuova parte, dove è la terza persona che ci presenta un paesaggio e un uomo che dialoga con un medico in un istituto psichiatrico. Quest’uomo è il fratello gemello del pazzo, che a quanto pare credeva di vedere proiettata un’immagine di sé che nessuno riconosceva non essere la sua. Neanche un amico immaginario, proprio una vita differente che la follia lo porta a credere un altro che cerca di prendere il suo posto, una sorta di intruso del suo mondo, che gli altri però non vedono come intruso. Ho trovato interessante il doppio Pov (punto di vista), ho detto che è una scelta pericolosa perché creare un ribaltamento è difficile utilizzando questa tecnica, si rischia di vanificare l’impegno dell’autore nel creare un ribaltamento effettivo, perché in qualche modo alla fine si devono rivelare dei passaggi strutturali che potrebbero davvero trasformare un ribaltamento in un semplice e immediato colpo di scena. Cosa ne penso? Ci ho riflettuto a lungo. L’induzione alla credenza, c’è, il fratello pazzo non ci svela il segreto, non può farlo, perché è convinto che suo fratello non esista, che sia una proiezione che gli altri vedono reale e si arrabbia perché non si accorgono che non è lui. Bene, vediamo la serietà  della follia in tutto il suo splendore, con parole semplici, quasi infantili, che ci trasportano nella mente della sua follia.
Papà… papà , dove sei? Papà  mi capisce, lui sa che non invento le cose, lui mi crede. Ho apprezzato molto il riferimento al padre, direi che non centrava niente, ma in qualche modo ha reso questa personalità  reale, non artefatta, me l’ha fatta apprezzare ancora di più. Il racconto non è stato quindi scritto con superficialità, ma con un sentimento di attenzione al dettaglio, che ha dato particolare risalto anche ai sentimenti di quest’uomo. L’ho trovato interessante.
L’induzione alla credenza potrebbe interrompersi bruscamente quando inizia la seconda parte. Capiamo che un uomo si sta dirigendo nell’istituto psichiatrico dove è rinchiuso il nostro folle amico. Ed è qui, proprio in questo punto, che poteva vanificarsi l’€™operato dello scrittore. Il lettore ora si aspetta che qualcuno ci faccia capire quale sia il problema mentale del malato, perché l’€™autore ha fatto una virata netta molto prima della fine. A questo punto mi domando? Si è fatto sfuggire il ribaltamento? Il doppio pov è pericolosissimo in questi casi.
Sospettavo che a parlare col dottore fosse il padre tanto decantato dal sopraddetto pazzo, non avevo capito che era un fratello gemello quello che il folle accusava, mi ha ingannato la parola “€œamico immaginario”, direi azzeccatissima per fuorviare un lettore attento come mi reputo io (scusate la sviolinata). Ma no, rispondo dicendo che fino all’ultima riga lo scrittore riesce comunque a mantenere la sua induzione alla credenza, proprio grazie alla terza persona che ha usato e che l’ha salvato dal vanificare tutto. Ottima pensata, ottimo stile, ottima attenzione. Proprio bravo, un talento.
Lo stile è ingannevole, perché seguiamo il dialogo senza capire chi è l’uomo che sta discutendo e che non vuole saperne più niente. Lo sospettiamo a poche righe dalla fine quando il medico dice “€œnon riesce nemmeno più a distinguere sè stesso da lei“, allora lì scatta qualcosa che ci fa dire “ma forse quello non era l’€™amico immaginario” e alla fine ce lo dice diretto il fratello chi è e di chi si tratta, svelandoci la sua identità. Abbiamo perciò anche il colpo di scena, fondamentale per raggiungere un ribaltamento. Certo è un po’€™ blando, perché il lettore ci ha preparati, ma c’è. Bisogna spezzare una lancia a favore di questo scrittore dicendo che stupire con due pov diversi non è molto semplice, ma lui c’è riuscito, molto in gamba, sì, davvero in gamba.
La struttura stilistica gli dà  ragione, fino alla fine abbiamo una struttura ingannevole; le scelte lessicali sono fatte in modo da sviarci e quindi non riusciamo a comprendere fino alle ultime battute cosa ci sta dicendo. A questo punto qualcuno si chiederà perché allora l’editor aveva tanti dubbi sulla risoluzione della traccia. Beh, perché è la prima volta che qualcuno svela direttamente, con un dialogo, quello che è il segreto del testo. L’ho detto mille volte che si deve lavorare sul non detto, il ribaltamento è una tecnica che non usa il dialogo diretto per spiegare cosa sta accadendo, altrimenti è mero colpo di scena. Nel racconto “Amici”€ i due cani non dicono mai di essere cani, nel racconto “€œSan Brontolo ora pro nobis”€, nessuno ci viene a spiegare che quello è il nonno che sta giocando con la nipote e che quindi lui stava semplicemente immaginando, mentre giocava con lei, di essere un paziente, lo capiamo noi, l’autore ce lo fa capire, qui invece nelle ultime battute il protagonista è costretto a svelare il segreto in maniera diretta: lui è il fratello gemello. Quindi… colpo di scena o ribaltamento? Ribaltamento dico io, un po’ debole, per via del doppio pov, ma è un ribaltamento. È proprio la struttura del testo che ha aiutato questo autore, se avesse scritto qualche parola in più, qualche indicazione in più, avrebbe fallito. Detto questo io ci vedo del talento da approfondire, perché sostenere un ribaltamento con il doppio pov, ripeto, è una scelta MOLTO azzardata, ma è un esperimento riuscito, non so se per fortuna o per bravura.

L’incipit: Incapaci. Maledetti incapaci, pazzi furiosi. Bello, mi piace. Incisivo e comunicativo. Iniziare con in insulto fa sempre la sua figura, ahahah, dà  un po’ la dimensione della follia che stiamo andando a leggere. Forse un cliché, ma è uno di quelli che è d’™impatto emotivo per riuscire a creare qualcosa che, se fatto da un bravo scrittore, può essere originale. Non una novità nel campo della letteratura, ma sicuramente non si può dire che questo autore non ci ha messo del suo, perciò non ho niente da dire sulla sua scelta, che trovo coerente con il resto del testo e molto comunicativa.

Il titolo: il titolo non c’entra niente, ma è perfetto. Completamente fuorviante, perciò perfetto. Ci sono più modi per scegliere il titolo: o si fa in modo che abbia un suo perché che ridonda nella storia dalla prima riga fino all’ultima, come molti hanno fatto, anche se non sempre utilizzano ciò che potrebbe davvero rappresentare un buon titolo per la storia; o danno informazioni aggiuntive (una data, un luogo, una parola, che ci dice qualcosa in più ed è importante); oppure non dicono assolutamente nulla, cioè non sono assolutamente determinanti per capire cosa il testo ci sta dicendo, ma hanno il loro assoluto senso. Papà, riportami a casa, è ciò che dice il folle, non è l’™argomento predominante del racconto, ma qualcuno può dire di non aver capito il perché si intitoli così? Certo si può pensare “vabé ma cosa c’€™entra”€, eppure non si poteva trovare un titolo migliore, un altro avrebbe vanificato lo sforzo dell’autore di non far capire il contenuto del suo testo. Anche solo “€œIstituto psichiatrico” avrebbe potuto vanificare il ribaltamento dell’autore, perciò è stata una mossa geniale fuorviare il lettore fin dall’inizio. Geniale, e una volta che lo si capisce non si può che sorridere di fronte alla trovata. Complimenti.

Giudizio finale: il racconto è pubblicabile, lo si è capito dal mio giudizio. Ȉ in linea con la traccia, debolmente, ma lo è, ed è riuscito a portare un modo originale di concepire il ribaltamento, a due pov. Mi ripeto: scelta non facile, ma esperimento riuscito.


Uomo, cane, serpente

Questa è una storia di tanto tempo fa. Le vicende che sto per raccontare sono avvenute quando l’uomo era parte della natura, che non era né buona né malvagia, ma semplicemente seguiva il suo corso. In quell’epoca, prima della costruzione della grande torre, tutte le creature parlavano la stessa lingua e potevano comunicare tra di loro senza barriere. Ma veniamo alla nostra storia.

Il cielo era nero, solo i lampi rischiaravano la notte. Pioveva da giorni, ormai, e in una grotta su una piccola altura, un uomo e un cane stavano vicini a un fuoco, cercando riparo dal vento insistente che si insinuava all’interno della caverna, strisciando basso e mordendo gelido.

L’uomo mormorava qualcosa, poi gettava foglie sulle braci e ogni volta la fiamma si ravvivava.

“Cane!” chiamò – in quest’epoca le cose avevano ancora significato per la loro sostanza, quindi non stupitevi troppo dei nomi che sentirete – “Cane, svegliati! Resta con me!”

Il cane, vecchio e stanco, magrissimo, alzò la testa e si girò verso la voce.

“Uomo, lasciami andare in pace. Smetti i riti di guarigione che stai facendo e invoca gli dei del trapasso per me. Accompagnami nel mio ultimo viaggio. Sono tanto stanco.”

“Cane, non dire così! Se tu te ne vai chi resterà con me? Abbiamo cacciato insieme, vagato esplorando il mondo, ci siamo spinti più lontano di chiunque altro. Ho ancora carne essiccata per sostentare entrambi, mangiane con me…”

“Uomo, hai diviso con me cibo e riparo per tutta la mia vita, ma adesso è giunto per me il tempo di andare. Sento i padri dei miei padri che mi invocano oltre la cortina di ombre.”

“Ti prego, non mi lasciare.” disse l’uomo scostando la mano da sotto le pelli che lo ricoprivano e accarezzando la testa del cane che era tornata a terra. Poteva sentire sotto il pelo direttamente le ossa. Vedere il suo compagno ridotto così era un supplizio, eppure non riusciva a lasciarlo andare.

La pioggia non accennava a smettere. Le riserve di cibo stavano per finire.

“Amico fedele, pazienta ancora. Questo cielo che non permette di uscire è sicuramente un segno degli dei che vogliono farci restare insieme. Ancora pochi giorni e anche io sarò come te. Allora potremo andare insieme nella terra dei nostri antenati. Aspettami ancora un po’, affrontiamo insieme anche questo ultimo viaggio.”

Il cane non rispose e per un secondo l’uomo pensò che lo avesse già lasciato.

Ma poi, con grande sforzo, si alzò nuovamente.

“Non puoi. Tu sei ancora giovane e forte. Io sono ormai vecchio, ma ho vissuto con onore la mia esistenza. Adesso la mia presenza è richiesta per un ultimo grande atto. I miei avi mi chiamano, lasciami andare. Liberami dalla prigione di carne. Permettimi di aiutarti un’ultima volta.”

L’uomo non capì le parole del cane. Pensò che il senno lo stesse abbandonando insieme alle ultime forze e si arrese, a malincuore, agli eventi.

Smise di recitare le preghiere di guarigione e di bruciare le erbe, preparò la sua anima e invocò gli dei del passaggio. Raccomandò loro l’anima del cane, ricordando quanto fosse stato valoroso in vita. Raccontò loro alcune delle avventure più eroiche che avevano condiviso. Poi, intimò di averne riguardo che quando la sua ora sarebbe giunta, avrebbe voluto, per prima cosa, correre di nuovo con lui.

“Addio, amico mio.”

“Addio uomo. Grazie.”

“Grazie a te, per tutto. Ora riposa.”

Ma il cane non ascoltava più. Gli dei erano stati clementi e lo avevano portato via subito. O il cane era stato fedele fino all’ultimo e stava aspettando solo il consenso dell’amico per potersene andare.

Adesso l’uomo era solo.

Tumulò il corpo di quello che era stato il suo compagno fedele come si sarebbe sepolto un eroico guerriero. Gli riservò tutti gli onori, si privò anche di buona parte della carne essiccata che gli era rimasta. Il cane era molto debole e l’aspettava un lungo viaggio, il cibo serviva di più a lui.

Poi pianse. Non voleva, ma non riusciva a trattenere le lacrime. Quando riuscì a calmarsi, dipinse sulla parete della grotta, con un po’ di argilla rossa, una scena di caccia dove erano entrambi forti e valorosi. Fuori non accennava a smettere di piovere. Il vento soffiava e sibilava come un serpente. L’uomo vagò nella caverna finché non fu colto dallo sfinimento e crollò, raggomitolandosi dove era, lontano dal fuoco, lasciando che si spegnesse. Voleva raggiungere il suo amico, non voleva restare solo. Tanto, si ripeteva, se avesse continuato a piovere così era davvero solo questione di giorni.

Si svegliò all’improvviso, sentendo un ululato.

“Cane?” chiamò.

Poi ricordò.

Un dolore profondo e angosciante si fece strada dal centro del suo petto.

“Il vento…” pensò.

Poi di nuovo quel rumore. E stavolta no, non poteva essersi sbagliato.

“Cane!”

Corse verso l’ingresso della caverna rischiarato dai lampi che sfolgoravano nel cielo tempestoso.

Davanti ai suoi occhi si parò uno spettacolo incredibile.

Il cane era lì, bello e vigoroso come lo ricordava; ed enorme! In cielo, sotto forma di nube, lottava coi venti che sembravano aspidi sibilanti: mordeva, ululava, abbaiava e i suoi latrati erano boati di tuoni!

Stava respingendo via il cielo nero che con le sue spire aveva portato pioggia per così tanto tempo. Ancora una volta era lì per lui, lo stava salvando.

L’uomo non resistette, non riuscì a essere solo uno spettatore, volle combattere un’ultima battaglia col suo amico, un’ultima disperata caccia grossa. Sapeva che il suo contributo sarebbe stato nullo, ma voleva esserci.

Così uscì dalla grotta e venne investito da raffiche di vento violentissimo. Le pelli che lo ricoprivano quasi gli vennero strappate di dosso, l’otre con l’acqua gli sbatteva violentemente contro le gambe. Cercò di liberarsi dal peso inutile, ma non ci riuscì tanta era la violenza con cui il vento gli si accaniva contro. Allora impugnò la sua lancia – che teneva sempre fissata alla schiena – mentre i capelli gli si appiccicavano agli occhi, gli entravano in bocca e nel naso.

Il vento si insinuava nelle cuciture delle sue vesti,  era come se qualcuno lo stesse strattonando da dietro. Sembrava di essere circondato da mille nemici invisibili, ma lui poteva contare nell’alleato migliore del mondo.

“Cane! Sono con te!” gridava convinto che quel grido di guerra sarebbe potuto servire a qualcosa.

Iniziò a menare fendenti con la sua lancia, colpiva alla cieca, si girava, veniva schiaffeggiato dall’aria così forte che lo buttava anche a terra. Ma lui si rialzava e colpiva di nuovo, con più grinta e rabbia di prima. Gli sembrava di venire costretto tra le spire di serpenti giganti che gli toglievano il fiato, tanta era la pressione dell’aria che sentiva contro il petto e la gola e che gli impediva di respirare.

Nel cielo impazzava un temporale terribile, il vento sibilava inferocito, il cane ululava, i tuoni scoppiavano, la pioggia scrosciava.

L’uomo continuò a essere tramortito da folate d’aria sempre più forti, ormai assestava colpi e poi doveva appoggiarsi alla sua picca per reggersi in piedi e non crollare sotto le sferzate del vento. Ubriaco di stanchezza subì l’ultimo schiaffo dalla coda di una biscia invisibile e poi crollò a terra. Prima di perdere i sensi vide per un’ultima volta il cane che ancora lottava, ringhiava, azzannava e non demordeva, intento a scacciare lo spirito dei venti.

 

Quando l’uomo si risvegliò non pioveva più, il vento si era placato.

Si mise a sedere, ancora stordito e con i muscoli doloranti, l’alba stava tinteggiando il mondo e si concesse un secondo per ammirare quel paesaggio. D’istinto volle chiamare il cane per dirgli di venire a vedere cosa si stava perdendo, ma si fermò un secondo prima di aprire la bocca.

Il paesaggio ora sembrava meno bello.

Si alzò barcollando e guardò bene il cielo per vedere se trovava tracce del cane, lassù.

Ma del cane non c’era traccia. Entrò nella grotta e si fermò vicino al tumulo. Recitò preghiere di ringraziamento e poi salutò il suo amico come faceva tutte le mattine. Sarebbe stata l’ultima volta che lo faceva. Non poteva restare lì. Il cane era venuto davvero in suo soccorso e aveva scacciato le nuvole cariche di pioggia. Poteva tornare dalla sua gente. Poteva raccontare le gesta del suo amico e l’ultimo estremo atto eroico che aveva compiuto. Lo avrebbe raccontato a ogni uomo e animale che avrebbe incontrato. Questo glielo doveva. La storia del cane che sconfisse il temporale doveva essere raccontata, come io la sto raccontando adesso a voi.

Così raccolse le sue cose e lasciò la grotta, mettendosi in cammino.

Tutto questo è successo tanto tempo fa. L’uomo era solo un animale strano che si spostava su due zampe ed era in grado di usare attrezzi. Il buio poteva essere totale, ma le stelle brillavano come non mai.

***

Questo racconto è stato scritto per il contest sugli elementi di escrivere.com

Il tema era l’aria e doveva essere rappresentato l’effetto dell’impatto dell’aria sul corpo.

Avevo da poco perso il mio adorato Bau, il racconto non è eccellente, ma è un tributo al mio tesoro, che aveva paura dei temporali, ma si sarebbe gettato nelle fiamme per noi.


Comunque vada

A volte ho il sospetto che se aprissi i rubinetti di quello che mi si dibatte nell’anima, non sarei più in grado di richiuderli.
Si aprirebbe un vaso di Pandora fatto di delusioni sminuite, lutti rinnegati, ambizioni represse, rimpianti slavati. E una volta fuori dal loro vaso dove sono stati ben stipati e chiusi ermeticamente mostrerebbero la loro vera faccia: delusioni cocenti, lutti insopportabili, ambizioni opprimenti e rimpianti amari.

Ogni tanto agito la scatola in cui stanno chiusi, giusto per controllare che siano ancora lì. Ci penso, sminuisco quello che c’è da sminuire, faccio spallucce mentalmente e tiro avanti.

Penso che comunque vada, andrà come deve andare. Che posso impegnarmi a migliorare le cose su cui ho controllo e che devo accettare quelle su cui il mio controllo è nullo.
Non posso far risplendere il sole solo perché sono stufa dell’ennesima giornata di pioggia.

La musica ha un enorme potere taumaturgico. Io sono tra le persone “fortunate”, quelle che se sentono una canzone triste ci sguazzano, soffrono e poi ne escono liberati.
La canzone che ti fa male al cuore è quella che te lo cura, come la pomata che pizzica è quella che poi dà sollievo.

Questa canzone per me fa miracoli.
Mi ha letteralmente salvato da abissi di disperazione da cui non credevo fosse possibile riemergere.

La sento mia in ogni nota e in ogni parola, mio è il dolore, mia la tristezza, l’incapacità di reagire, l’inesorabile arrendersi agli eventi.

 

Forse chi l’ha scritta non l’ha intesa così, ma a me questo arriva. E per questo sono grata. Ha fatto di più questa canzone che tante persone fisicamente presenti accanto a me.

Un giorno vorrei ringraziare l’autore e spiegargli di quanto mi abbia aiutato. Perché sento di dovergli tanto, sento tanta gratitudine ogni volta che questo brano si ruba un brandello del mio malessere e lo porta via, dove vanno a morire le note delle canzoni disperse per l’aria.

 

Comunque vada. Grazie.

 


La maglia rossa

Un piccolo racconto di una buona penna, compagno di laboratori di scrittura e contest “escriveriani”.

Per chi ancora passa di qui e ha voglia di leggere qualcosa di interessante, buona lettura!

Le storie dell'armadio

di Alessandro Albarelli

Giuro che ci ho provato. La maglia rossa, lì, in basso a destra… me la sono messa una volta per andare all’iper a comprare due cosucce.

Lo vedete, no, il mio scompartimento nell’armadio?

Ti vesti da vecchio, mi dicono; sei sempre così scuro, si lamenta la mia compagna, ne guadagneresti in simpatia!

E ci provano pure, a regalarmi roba colorata, che inevitabilmente finisce divorata dalla canfora dietro alle ante.

Eppure non sono un tipo così buio. Non amo la musica dark (Friday I’m in love dei Cure è esclusa, vero?), non ho mai provato a tagliarmi le vene o a tagliarmi in generale, ho un buon rapporto non conflittuale con i genitori, mi piacciono il mare, il sole, la Spagna… mi diverto ancora con l’abc dell’umorismo, rido basta che ci sia la parola «cacca».

Però mi viene così, di vestirmi di scuro. Non per forza di…

View original post 195 more words


Scatole cinesi

I sogni in cui credo di svegliarmi sono tremendi. Mi capita perché corpo e mente si desincronizzano nel sonno, il cervello si attiva mentre il corpo rimane immobilizzato. Questo fa sì che mi succedano le cose più fantasiose e assurde durante questo processo.

Spesso sono già impegnata in un incubo particolarmente vivido, dal quale sogno di svegliarmi per ricadere in uno stato di angoscia assurda, perché gli elementi dell’incubo mi seguono nel mondo della veglia.

E quando tutto diventa troppo tremendo da sopportare e mi sveglio veramente, mi resta comunque il dubbio che i mostri del mio inconscio siano ancora lì, a portata di lampada.

 

Stanotte stavo affrontando un sogno abbastanza ansiogeno: camminavo in uno strano crepuscolo, in una strada deserta di un paese disabitato. Qualcuno mi seguiva. Non l’avevo visto, ma ne ero certa, sentivo che c’era. Camminavo per stradine e vicoli, in un paese inesistente che era la somma di tutti i posti in cui sono stata, e il mio inseguitore era sempre più vicino, la sua presenza invisibile era sempre più incombente.

All’improvviso mi trovo chiusa in un vicolo cieco e col cuore che impazzisce in petto, mi sveglio. Sono girata su un fianco e il terrore appena provato mi pietrifica ancora, non riesco a muovermi. Mi capita, appena sveglia, di non riuscire per qualche momento a muovere niente. Così non mi scompongo più di tanto, aspetto che il torpore mi abbandoni e intanto cerco di riprendermi dallo spavento.

Ma non ci riesco, perché sento che qualcosa non va bene. Poi capisco, la riconosco.

 

La presenza che mi ha seguito per tutto il villaggio immaginario è con me nella stanza, la sento ora come la sentivo in sogno. Mi ha seguito anche qui, non so come, ma è nel mondo della veglia, me la sono portata dietro. Percepisco qualcosa che mi sfiora la spalla, non riesco ancora a muovermi, ma riesco a intravedere, nel buio della stanza, una zona di ombra più densa proprio sopra di me. È sospesa a mezz’aria sopra di me: i suoi piedi hanno sfiorato la mia spalla causando brividi che ancora non si placano. Metto a fuoco e lo vedo lì, un uomo impiccato che penzola dal soffitto. Vorrei urlare ma dalla gola non esce un suono, so che sto facendo uno sforzo incredibile, ma nonostante questo non posso muovermi.

Alla fine la voce si concretizza e riesco a liberarmi dal giogo della paralisi, mi volto verso la lampada, la accendo, ma questa non proietta il solito rassicurante cono di luce: sfrigolando inizia a schizzare lapilli di lava che mi colpiscono la schiena; calore, dolore, sono sensazioni reali, il letto prende fuoco e la presenza non più appesa al cappio mi attende paziente in ginocchio ai piedi del letto, consapevole che ormai è riuscita a raggiungermi.

 

Mi sveglio. Nella stessa posizione sul fianco in cui mi ero già svegliata nel sogno, con la stessa ansia e lo stesso terrore che non mi abbandonano. Ho i brividi, come nel sogno. Non ho coraggio di muovermi, anche se so che potrei. Anche se non ci sono fuoco e lapilli, la mia fronte è calda. Sto male e so di aver appena fatto uno dei miei incubi della febbre.

 

Vividi, lucidi, agghiaccianti.

 

Provo a riaddormentarmi, sperando di non sognare più.


Pensieri

Mi piace questo periodo dell’anno. Le giornate si accorciano e le ombre s’allungano in fretta. Non mi piace la notte, mai piaciuta. Il mattino e il primo pomeriggio non mi rendono particolarmente felice. Ma l’imbrunire e i tramonti… mi fanno sentire in pace col mondo. Mai capito perché, e mi sta bene così.

 

A volte penso che non ce la farò. In generale, non ce la farò ad alzarmi domattina. Non ce la farò a consegnare quella torta in tempo. Non ce la farò a superare i momenti difficili. Passo da un “non ce la farò” al successivo, sempre preoccupata per qualcosa. Per fortuna mi tengo impegnata e il tempo passa, e dai, alla fine ce la faccio in qualche modo.

Ho voglia di riprendere in mano i Tarocchi. Ricomincio a sentirli come qualcosa di importante e non solo come pezzetti di carta plastificata. Vorrei i Marsigliesi che non sono mai riuscita a trovare, semplici ed efficaci. Non so perché sia tornata questa ondata di misticismo, ogni tanto mi succede, mi fisso con qualcosa e poi boh, come è arrivata l’onda se ne va e resto disinteressata. Adesso vorrei fare una lettura, ma non ricordo bene il simbolo e il significato, dovrei mettermi lì e ripassare qualche saggio dell’università di Google. E pensare che quando ho iniziato coi Tarocchi ci prestavamo i libri. Mi sento vecchia.

 

L’altro giorno ho visto uno scoiattolo. Vado a lavoro e passo per uno dei pochi tratti di macchia sopravvissuti al ciclone del Marzo scorso. E lì vedo un po’ di tutto, colombacci, merli, tortore, cornacchie, passeri e pettirossi. Ma ogni tanto, se sono proprio fortunata, vedo gli scoiattoli. E se anche la giornata è una di quelle toste per me va già bene così, perché ho visto uno scoiattolo. Mi sento bambina.

 

La routine un po’ mi manca. Quella che avevo prima, che mi faceva sembrare di essere incatenata in un eterno ritorno da cui non riuscivo a svincolarmi. Bagagli, treni, un letto non mio, di nuovo bagagli, treni… per poi ricominciare non appena i panni del viaggio precedente erano stati lavati e stirati e riposti nel cassetto, pronti per essere di nuovo messi in borsa. Adesso la routine è differente, i giorni volano, un mese sembra una settimana. Rincorro la vita e non so ancora se mi piace o no, ho paura di fermarmi a pensare se mi piace o no, se è quello che volevo o no. Mi consolo dicendomi che non sarà per sempre che posso fermarmi ad un certo punto, con un bagaglio lavorativo tale da permettermi nuove opportunità.
Però le giornate spariscono così velocemente che davvero, mi chiedo dove venga inghiottito il mio tempo. E se è vera la storia che più ci si diverte più il tempo vola, direi che mi sto divertendo un sacco. Probabilmente, non ho mai capito davvero cosa fosse il divertimento.

In certe situazioni mi è mancato completamente il terreno sotto i piedi. Non ho ancora capito come ho fatto a non franare e finire sommersa dalle macerie. Probabilmente sono franata, è che sono morta sul colpo e non ho ancora realizzato.

 

C’è una nota di amarezza in tutto quello che faccio. Un senso di desolazione e sconforto. Eppure, c’è una nota di gioia in tutto quello che faccio, una nota di felicità sincera, quasi sfrontata. Un giorno spero di ritrovare il libretto d’istruzioni del mio cervello, perché davvero non ho ancora capito come funziono.


Prima di addormentarsi 

A volte, nonostante la stanchezza e i farmaci, faccio fatica a prendere sonno. Per quanto io cerchi di fermarla, la mia mente vaga senza sosta da un pensiero all’altro, da un ricordo al successivo, ßnza logica apparente.
Così stasera, alla vigilia di  una brutta ricorrenza, sono qui a cercare di arginare le onde della mente, a cercare di chiudere gli occhi e perdermi nei sogni. 
E non ci riesco.
Ricordo i libri che ho letto, dai primissimi imposti per scelta scolastica a quelli scelti per passione personale; ricordo “Il barone rampante” di Calvino e la mia reazione alla sua lettura… L’avevo preso in prestito a scuola in seconda media, e le sensazioni contrastanti che mi trasmetteva mi fecero esordire dicendo «non è un libro per ragazzini delle medie, solo perché il protagonista è un bambino non è detto che sia un libro per bambini!» 

Ero arrabbiata perché sentivo di non avere abbastanza maturità per godere appieno del libro, e sentivo che in qualche modo mi avevano forzato su un percorso più adulto dei miei dodici anni. 

Non l’ho mai riletto, ma conservo immagini vividissime del libro, anche se la trama è ormai sfocata, e sento tanta tristezza, la stessa che provavo mentre lo leggevo.
Non so perché certe cose ci restino più impresse di altre, o perché ci trasmettano emozioni più o meno forti e durature nel tempo. Non so nemmeno dire quale sia il rapporto di causa ed effetto: se siano le sensazioni che proviamo a forgiare il nostro carattere con una sorta di imprinting emozionale o se sia il nostro carattere a reagire in maniera differente ad alcune cose per questioni di nascita.
Resta anche il ricordo della rabbia profonda per aver subito il processo di crescita del protagonista. Con Cosimo sono cresciuta anche io, mi sono trovata posta di fronte ai problemi della vita, del diventare grandi restando coerenti con sé stessi, dell’isolarsi, di non saper più stare tra gli altri, ho affrontato le conseguenze delle scelte fatte. Per quello ero così arrabbiata, perché sentivo che un frammento della mia infanzia se ne era andato con le pagine del libro. Dopo “Il barone rampante” non sono stata più completamente bambina, libera dai pensieri sul futuro e sulle conseguenze delle mie scelte sulla mia vita e quella di chi mi stava intorno. Volevo restare bambina ancora un po’, leggere di mostri venuti da Yuggoth o di elfi e nani nella Terra di Mezzo.
Un giorno racconterò della prima volta che ho capito cosa volesse dire l’espressione un pugno allo stomaco… Ma si parlerà di un altro libro.