Incapaci. Maledetti incapaci, pazzi furiosi. Luride bestie che non capiscono niente e mi riempiono delle loro porcherie per farmi stare buono. Ciechi che non vedono oltre il loro fottuto naso attaccato alla loro schifosa faccia.
Vorrei vederceli loro, a vivere come vivo io!
Zotici. Zotici e bifolchi.
Papà… papà, dove sei? Papà mi capisce, lui sa che non invento le cose, lui mi crede.
Lui non mi riempie di medicine perché dico che il mio doppio mi perseguita. Vive la mia vita, mentre sono rinchiuso qui a contare le giornate vedendo attraverso una finestra con le griglie di ferro.
Il mio doppio c’è sempre stato. Nessuno se ne curava quando da bambino era un amico immaginario. Papà ne rideva e io con lui. Non avevo paura. Poi il mio doppio ha iniziato ad essere reale. Giocava coi miei giochi, metteva i miei vestiti, mangiava il mio cibo. Ma papà mi diceva di essere buono e comportarmi bene, altrimenti la mamma si intristiva.
Del mio doppio non se ne accorgevano.
Andava alla mia stessa scuola, sedeva al mio banco, parlava coi miei amici e nessuno si accorgeva che non ero io.
Poi di colpo non è stato più divertente, vero papà? Perché nessuno rideva più?
Mi avete rinchiuso qui, con queste bestie vestite di bianco che non capiscono niente e mi fanno ingoiare il loro veleno con la forza. Dicono che è nella mia testa, che fanno tutto per il mio bene, e intanto lui vive la mia vita…
Ma io lo vedo anche qui, papà, lo vedo anche qui!
È nello specchio e negli altri riflessi, dietro di me quando non guardo, si sposta insieme alla mia testa, è in strada, all’aperto, mentre io sono rinchiuso dietro la griglia della finestra.
Vienimi a prendere papà, portami a casa…
L’estate stava lasciando precocemente spazio all’autunno, e le foglie sugli aceri delle decorose villette di Springfield Boulevard iniziavano a ingiallire ed arrossarsi sebbene non si fosse ancora raggiunta la seconda settimana di settembre.
L’uomo col fedora attraversò la strada che lo separava dall’imponente edificio in mattoncini rossi, esitò un momento sulla soglia dell’ampio portico in legno bianco, contemplando l’architettura georgiana portata agli estremi nelle proporzioni squadrate dello stabile, poi si tolse il cappello, entrò e si diresse al primo piano.
«Dr. Bender, posso entrare?» chiese bussando alla porta aperta.
Seduto alla scrivania, il Dr. Bender era intento a sfogliare un fascicolo. Senza staccare gli occhi dai fogli dattiloscritti fece cenno con la mano di entrare e indicò la sedia davanti a sé.
Quindi esalò un profondo sospiro, lasciò andare il fascicolo aperto sul tavolo e guardò l’uomo come se non sapesse come cominciare il discorso e sperasse che lui potesse toglierlo dall’impasse. Così fu.
«C’è un motivo particolare per cui mi ha chiamato? Ci sono miglioramenti?»
«Vorrei poterle dire di sì, ma purtroppo il caso di Simon non risponde ai trattamenti farmacologici. Il paziente presenta gravi stati allucinatori persistenti, manie persecutorie, originatesi dal mai superato evento traumatico della morte…»
Il dottore stava ripetendo meccanicamente tutto quello che aveva appena letto sulla cartella.
«Dottore, la prego. So esattamente come è Simon. Lo conosco da quando è nato. Cosa suggerisce di fare? Perché mi ha chiamato?»
«Vorrei che acconsentisse a lasciarci provare altri trattamenti, non farmacologici.»
«Volete friggergli il cervello con l’elettroshock?»
«Suvvia Mr. Page, siamo al Creedmoor Psychiatric Center nel Queens, non in qualche sanatorio sovietico! Abbiamo ogni ritrovato della scienza medica e tecnologia all’avanguardia, con questi nuovi strumenti, i computer, che permettono di analizzare i dati e…»
Ancora una lezione imparata a memoria e ripetuta.
«Ho capito dottore, va bene. Ve lo lascio fare. È tutto vostro, non ne voglio sapere più niente. Sono vent’anni che mi accusa di vivere la sua vita. Credo che sia giunto il momento che io inizi a vivere la mia.»
«Vede, questa è la cosa incredibile. Il suo rifiuto assoluto di accettare la sua esistenza. Attualmente non riesce nemmeno più a distinguere sé stesso da lei, posto di fronte a uno specchio è convinto di vedere lei. Abbiamo dovuto oscurare ogni superficie riflettente perché manifesta comportamenti autolesionisti.»
L’uomo col fedora in mano, fissò il fascicolo aperto e vide una foto di due bambini identici, seduti su un portico di legno di una villetta decorosa. Probabilmente da qualche parte c’era un acero, anche se nella foto non si vedeva. L’altra immagine era una versione di sé, più pallida e magra, con uno sguardo spiritato e sconvolto dalla malattia mentale, che non riusciva più a riconoscere.
***
Questo racconto è stato scritto per il laboratorio di scrittura di settembre 2014 di escrivere.com
Il laboratorio era anonimo, un editor esterno ha letto e commentato i vari racconti senza avere idea di chi fosse l’autore.
Io ho raccolto qualche commento e qualche perplessità, ma sono soddisfatta.
La traccia doveva prevedere un ribaltamento e la storia doveva essere ambientata in una città straniera.
Questo è il commento dell’editor:
Questo racconto mi mette in difficoltà. Inizio dal principio, così non mi posso sbagliare, come fanno tutti i bravi scolari quando cominciano un tema. Innanzitutto devo dire che non è scritto male, ha un suo perché di stesura, anche se mi trovo a dover riflettere sulle scelte che ha fatto l’autore riguardo al come comunicarci il suo “ribaltamento” e a domandarmi, se, usando questa tecnica, sia riuscito nel suo intento oppure no. Intanto mi limito a dire che è un’idea che ho visto già sfruttata in precedenza da un altro racconto, che ha cercato di usare un tema simile, quello della malattia mentale, e non è semplice creare un ribaltamento con questo presupposto, ma l’autore ha trovato una soluzione portandoci due punti di vista differenti che dovrebbero condurci a una soluzione finale ribaltata. Una scelta pericolosa e azzardata, per niente facile. Mi sto dilungando: il racconto mi è piaciuto.
La traccia e lo stile: approvo la scelta dell’autore di diversificare i due diversi punti di vista usati anche per quanto riguarda lo stile. Si nota la differenza, quindi vuol dire che mi trovo di fronte a una persona che si rende conto di dover comunicare non solo attraverso il contenuto, ma anche attraverso la resa stilistica. È un ottimo inizio per intraprendere la via della scrittura. Una prima parte vede il nostro “pazzo” che parla in prima persona al presente, certo ricorda, quindi poi usa il passato. Si capisce che è arrabbiato perché è stato rinchiuso in gabbia e aspetta il papà che lo riporti via. Poi si affaccia una nuova parte, dove è la terza persona che ci presenta un paesaggio e un uomo che dialoga con un medico in un istituto psichiatrico. Quest’uomo è il fratello gemello del pazzo, che a quanto pare credeva di vedere proiettata un’immagine di sé che nessuno riconosceva non essere la sua. Neanche un amico immaginario, proprio una vita differente che la follia lo porta a credere un altro che cerca di prendere il suo posto, una sorta di intruso del suo mondo, che gli altri però non vedono come intruso. Ho trovato interessante il doppio Pov (punto di vista), ho detto che è una scelta pericolosa perché creare un ribaltamento è difficile utilizzando questa tecnica, si rischia di vanificare l’impegno dell’autore nel creare un ribaltamento effettivo, perché in qualche modo alla fine si devono rivelare dei passaggi strutturali che potrebbero davvero trasformare un ribaltamento in un semplice e immediato colpo di scena. Cosa ne penso? Ci ho riflettuto a lungo. L’induzione alla credenza, c’è, il fratello pazzo non ci svela il segreto, non può farlo, perché è convinto che suo fratello non esista, che sia una proiezione che gli altri vedono reale e si arrabbia perché non si accorgono che non è lui. Bene, vediamo la serietà della follia in tutto il suo splendore, con parole semplici, quasi infantili, che ci trasportano nella mente della sua follia.
Papà… papà , dove sei? Papà mi capisce, lui sa che non invento le cose, lui mi crede. Ho apprezzato molto il riferimento al padre, direi che non centrava niente, ma in qualche modo ha reso questa personalità reale, non artefatta, me l’ha fatta apprezzare ancora di più. Il racconto non è stato quindi scritto con superficialità, ma con un sentimento di attenzione al dettaglio, che ha dato particolare risalto anche ai sentimenti di quest’uomo. L’ho trovato interessante.
L’induzione alla credenza potrebbe interrompersi bruscamente quando inizia la seconda parte. Capiamo che un uomo si sta dirigendo nell’istituto psichiatrico dove è rinchiuso il nostro folle amico. Ed è qui, proprio in questo punto, che poteva vanificarsi l’operato dello scrittore. Il lettore ora si aspetta che qualcuno ci faccia capire quale sia il problema mentale del malato, perché l’autore ha fatto una virata netta molto prima della fine. A questo punto mi domando? Si è fatto sfuggire il ribaltamento? Il doppio pov è pericolosissimo in questi casi.
Sospettavo che a parlare col dottore fosse il padre tanto decantato dal sopraddetto pazzo, non avevo capito che era un fratello gemello quello che il folle accusava, mi ha ingannato la parola “amico immaginario”, direi azzeccatissima per fuorviare un lettore attento come mi reputo io (scusate la sviolinata). Ma no, rispondo dicendo che fino all’ultima riga lo scrittore riesce comunque a mantenere la sua induzione alla credenza, proprio grazie alla terza persona che ha usato e che l’ha salvato dal vanificare tutto. Ottima pensata, ottimo stile, ottima attenzione. Proprio bravo, un talento.
Lo stile è ingannevole, perché seguiamo il dialogo senza capire chi è l’uomo che sta discutendo e che non vuole saperne più niente. Lo sospettiamo a poche righe dalla fine quando il medico dice “non riesce nemmeno più a distinguere sè stesso da lei“, allora lì scatta qualcosa che ci fa dire “ma forse quello non era l’amico immaginario” e alla fine ce lo dice diretto il fratello chi è e di chi si tratta, svelandoci la sua identità. Abbiamo perciò anche il colpo di scena, fondamentale per raggiungere un ribaltamento. Certo è un po’ blando, perché il lettore ci ha preparati, ma c’è. Bisogna spezzare una lancia a favore di questo scrittore dicendo che stupire con due pov diversi non è molto semplice, ma lui c’è riuscito, molto in gamba, sì, davvero in gamba.
La struttura stilistica gli dà ragione, fino alla fine abbiamo una struttura ingannevole; le scelte lessicali sono fatte in modo da sviarci e quindi non riusciamo a comprendere fino alle ultime battute cosa ci sta dicendo. A questo punto qualcuno si chiederà perché allora l’editor aveva tanti dubbi sulla risoluzione della traccia. Beh, perché è la prima volta che qualcuno svela direttamente, con un dialogo, quello che è il segreto del testo. L’ho detto mille volte che si deve lavorare sul non detto, il ribaltamento è una tecnica che non usa il dialogo diretto per spiegare cosa sta accadendo, altrimenti è mero colpo di scena. Nel racconto “Amici” i due cani non dicono mai di essere cani, nel racconto “San Brontolo ora pro nobis”, nessuno ci viene a spiegare che quello è il nonno che sta giocando con la nipote e che quindi lui stava semplicemente immaginando, mentre giocava con lei, di essere un paziente, lo capiamo noi, l’autore ce lo fa capire, qui invece nelle ultime battute il protagonista è costretto a svelare il segreto in maniera diretta: lui è il fratello gemello. Quindi… colpo di scena o ribaltamento? Ribaltamento dico io, un po’ debole, per via del doppio pov, ma è un ribaltamento. È proprio la struttura del testo che ha aiutato questo autore, se avesse scritto qualche parola in più, qualche indicazione in più, avrebbe fallito. Detto questo io ci vedo del talento da approfondire, perché sostenere un ribaltamento con il doppio pov, ripeto, è una scelta MOLTO azzardata, ma è un esperimento riuscito, non so se per fortuna o per bravura.
L’incipit: Incapaci. Maledetti incapaci, pazzi furiosi. Bello, mi piace. Incisivo e comunicativo. Iniziare con in insulto fa sempre la sua figura, ahahah, dà un po’ la dimensione della follia che stiamo andando a leggere. Forse un cliché, ma è uno di quelli che è d’impatto emotivo per riuscire a creare qualcosa che, se fatto da un bravo scrittore, può essere originale. Non una novità nel campo della letteratura, ma sicuramente non si può dire che questo autore non ci ha messo del suo, perciò non ho niente da dire sulla sua scelta, che trovo coerente con il resto del testo e molto comunicativa.
Il titolo: il titolo non c’entra niente, ma è perfetto. Completamente fuorviante, perciò perfetto. Ci sono più modi per scegliere il titolo: o si fa in modo che abbia un suo perché che ridonda nella storia dalla prima riga fino all’ultima, come molti hanno fatto, anche se non sempre utilizzano ciò che potrebbe davvero rappresentare un buon titolo per la storia; o danno informazioni aggiuntive (una data, un luogo, una parola, che ci dice qualcosa in più ed è importante); oppure non dicono assolutamente nulla, cioè non sono assolutamente determinanti per capire cosa il testo ci sta dicendo, ma hanno il loro assoluto senso. Papà, riportami a casa, è ciò che dice il folle, non è l’argomento predominante del racconto, ma qualcuno può dire di non aver capito il perché si intitoli così? Certo si può pensare “vabé ma cosa c’entra”, eppure non si poteva trovare un titolo migliore, un altro avrebbe vanificato lo sforzo dell’autore di non far capire il contenuto del suo testo. Anche solo “Istituto psichiatrico” avrebbe potuto vanificare il ribaltamento dell’autore, perciò è stata una mossa geniale fuorviare il lettore fin dall’inizio. Geniale, e una volta che lo si capisce non si può che sorridere di fronte alla trovata. Complimenti.
Giudizio finale: il racconto è pubblicabile, lo si è capito dal mio giudizio. È in linea con la traccia, debolmente, ma lo è, ed è riuscito a portare un modo originale di concepire il ribaltamento, a due pov. Mi ripeto: scelta non facile, ma esperimento riuscito.